XV.

Francesco Guicciardini e la minore storiografia cinquecentesca

1. La vita di Francesco Guicciardini

Vicino al Machiavelli per una considerazione lucida e spietata della realtà «effettuale» e delle leggi della politica e dell’agire umano, ma ancor piú teso ad una critica sottile e profonda di ogni caduta nell’utopia e nella esemplarità degli antichi (e pur, come vedremo, non perciò aridamente scettico e cinico e privo di speranze e volontà, nonché di un senso particolare di religiosità e di moralità, che circolano anche al fondo del suo fortissimo interesse storico), si presenta a noi l’altro grande scrittore rinascimentale di problemi politici e di prospettive e sistemazioni storiografiche, Francesco Guicciardini.

Anch’egli fiorentino, nacque il 6 marzo del 1483, di famiglia fortemente autorevole nella vita politica della città, da Piero amico del Ficino e del Savonarola, ricevendo cosí già dal padre un’educazione rigorosa e profonda e rivelando prestissimo doti di singolare e precoce maturità e un forte interesse per la politica che – dopo una piú giovanile e fruttuosa professione di avvocato già intrecciata ad un privato esercizio di studioso della storia e della politica consolidato in alcuni primi scritti polemici contro gli opposti estremismi della tirannide medicea e del regime popolare, considerati entrambi rovinosi per Firenze – lo portò ad accettare, nel 1511, la carica di ambasciatore alla corte di Ferdinando il Cattolico, re di Spagna, dove egli fece la prima sua grande esperienza di osservatore attentissimo della condotta politica di uno dei maggiori protagonisti della storia del tempo. Rientrato in patria nel ’14 quando Firenze era tornata sotto il governo dei Medici, il Guicciardini (che perseguiva assai coerentemente un suo intento di aiutare la costruzione di «buoni ordini», di saggi e solidi ordinamenti qualunque fosse il regime, repubblicano o monarchico, della città e dunque non può essere scambiato solo per un cinico opportunista disposto a servire i piú opposti padroni) si pose al servizio dei nuovi signori e dal nuovo papa Leone X, un Medici, fu nominato ad alte cariche (cosí diversamente dalla sorte tanto piú modesta che ebbe nella sua vita il Machiavelli): prima governatore pontificio di Modena e di Reggio, poi (sotto i nuovi papi, Adriano VI e Clemente VII), commissario dell’esercito pontificio e, nel 1525, Presidente della Romagna.

In questi alti incarichi egli dispiegò fortissime capacità di organizzatore e amministratore in paesi pieni di disordini, di ingiustizie, di violenze private, mentre, chiamato nel 1526 dal papa Clemente VII a organizzare la lega contro Carlo V, risentí gravemente dell’esito disastroso della guerra che portò al sacco di Roma e alla cacciata dei Medici da Firenze. Sicché egli – accusato ingiustamente dai pontefici per quei rovinosi avvenimenti e insieme odiato dal nuovo governo repubblicano di Firenze per il suo lungo servizio sotto i Medici – soffrí non solo una crisi pratica gravissima, in seguito al bando da Firenze e alla confisca dei suoi beni, ma anche una crisi personale profonda che lo indusse (prima nella solitudine nella sua villa di Finocchieto, poi a Bologna e a Roma) ad un drammatico bilancio della sua attività e del suo stesso sistema teorico-politico (negli importanti scritti di confessione: Consolatoria, Accusatoria, Defensoria) e ad un sostanziale passaggio dalla volontà della piú impegnativa attività pratica e della teorizzazione politica alla piú decisa scelta di attività di storico.

Nascono cosí (accanto ad altri scritti) le Storie fiorentine e poi il monumentale capolavoro la Storia d’Italia, a cui il Guicciardini dedicherà le sue energie intellettuali piú profonde: prima durante una certa ripresa delle attività pratiche (fu vicelegato pontificio a Bologna e poi consigliere a Firenze del duca Alessandro, dopo il nuovo ritorno dei Medici), poi – definitivamente conclusa la sua funzione di alto diplomatico e collaboratore di potenti quando il nuovo duca Cosimo lo mise da parte – nella dignitosa e signorile solitudine della sua villa di Arcetri, dove, già colpito da apoplessia nel luglio del ’39, morí il 22 maggio del 1540.

2. Le opere di Francesco Guicciardini

Ciò che distingue il Guicciardini dal Machiavelli – rispetto al quale egli rappresenta un momento ulteriore, piú acutamente analitico e spregiudicatamente riflessivo, della meditazione sulla complessità della realtà, dell’azione politica che sfocia in una maggiore lucidità della narrazione storica – deriva insieme dalle concrete esperienze dell’uomo di stato e del diplomatico piú largamente condotte e protratte nel tempo storico e a maggior livello di responsabilità inerente alle alte cariche ricoperte, dalle qualità e dalla natura dell’uomo, che, mentre è chiaramente privo degli interessi piú vari e geniali del Machiavelli (non vi è nel Guicciardini nemmeno l’attrazione per l’attività poetica o teatrale cosí forte nel suo amico), è interamente dominato da un bisogno e da una forza di lucidissima intelligenza, da una profonda antipatia per le utopie e le prospettive di un inimmaginabile futuro, cosí come per ogni forma di esemplarità e di normatività generale di comportamento. In realtà al fondo dell’animo guicciardiniano – tutt’altro che gretto e meschino – vive una intuizione della vita, dell’uomo, della realtà molto piú pessimistica e desolata di quella pur tanto amara, ma piú volontaristica del Machiavelli.

Il Guicciardini sa che l’uomo è anzitutto e soprattutto animato da un bisogno di affermazione e di difesa individuale, cosí come esso è immesso in una realtà complessa e durissima, in una natura ostile e difficile, in cui la stessa durata e sopravvivenza individuale appare quasi miracolosa, come egli dice in uno dei piú affascinanti pensieri raccolti nei suoi Ricordi politici e civili:

Quando io considero a quanti accidenti e pericoli di infirmità, di caso, di violenza, e in modi infiniti, è sottoposta la vita dell’uomo, quante cose bisogna concorrino nello anno a volere che la ricolta sia buona, non è cosa di che io mi meravigli di piú che vedere un uomo vecchio, uno anno felice.

Da questa visione cupa e disillusa, antischematica e antivolontaristica, derivano – come sopra dicevo – una concezione generale in cui l’acume supremo del conoscitore degli uomini e della storia tende a rifiutare ogni illusione e ogni facile rivolta alla durezza della realtà e a ricercare invece una particolare e difficilissima saggezza che eviti all’individuo di rimanere sommerso nelle tempeste drammatiche della vita e di ridurre la sua disposizione a cadere negli infiniti errori cui è esposto e che il Guicciardini individua con lucidissima – e non perciò pedantesca – valutazione di singoli e irripetibili casi.

Questa saggezza, particolarmente condensata nei Ricordi politici e civili – uno dei capolavori del Guicciardini e certo il suo libro piú affascinante per un lettore moderno –, si fonda anzitutto sulla duplice individuazione e della complessità del reale che sfugge ad ogni norma generale ed eterna e, d’altra parte, di quella istintiva tendenza dell’uomo al suo interesse «particolare» (individuale, di famiglia, o, se è reggitore di stati, del proprio stato), ad un utile che non può mai esser perso di vista e che vien perseguito mediante una «discrezione», un discernimento empirico di situazioni, di cose, di uomini, senza il quale ogni azione è destinata a fallire.

Certo in tal modo – misurata sul metro di una moralità impegnata e generosa – tale prospettiva guicciardiana non può non apparire (come apparve al grande De Sanctis) il segno di forte perdita della tensione ideale viva nel Machiavelli, il riflesso di una decadenza della coscienza italiana nello sviluppo del Cinquecento e nell’incrinatura crescente del Rinascimento. Ma non si può neppure negare come tale prospettiva costituisca un elemento, a suo modo importantissimo, di coscienza della reale situazione storica italiana che restringeva ogni campo a disegni e volontà veramente realizzabili e un elemento pure importantissimo nella interpretazione della realtà generale dell’uomo fuori di sogni, illusioni, buone intenzioni senza effetto.

Mentre tale prospettiva deve venir ben misurata alla luce di una interpretazione – quale fu quella del Guicciardini – piú di storico e analizzatore di storia che di politico impegnato in costruzioni teorico-pratiche quale fu il Machiavelli.

Il Guicciardini era soprattutto attratto dalla conoscenza e dalla narrazione-valutazione della realtà storica cosí come essa era e non come doveva o poteva essere trasformata. E se non mancava a lui il sentimento doloroso della situazione fiorentina e persino italiana (e, ad esempio, l’avversione per quei «dannati preti» che avevano contribuito alla rovina italiana e che pur realisticamente aveva servito), egli non vedeva uno sfocio diverso al corso attuale della storia e rifiutava energicamente ogni accessione o a sogni eroico-utopistici, secondo lui rovinosi, o a riprese attive di esempi del passato e specie delle virtú politiche degli antichi.

È qui che egli piú direttamente si contrappone al Machiavelli (ciò che egli fece esplicitamente nelle sue Considerazioni sui discorsi del Machiavelli) confutando ogni idea di poter seguire – in tempi e situazioni tanto diverse – esempi di regimi politici nati e condizionati in tutt’altre condizioni:

Quanto si ingannano coloro che a ogni parola allegano i Romani! Bisognerebbe avere una città condizionata come era la loro e poi governarsi secondo quello esempio: il quale a chi ha qualità disproporzionate è tanto disproporzionato quanto sarebbe volere che un asino facesse il corso di un cavallo.

Alla fine quella del Machiavelli appariva a lui un’utopia antistorica, come era anche quella stessa di un «principe» che riuscisse, per sola sua virtú, a trasformare situazioni cosí complesse e condizionate da infiniti fattori e casi e di fronte alle quali il politico poteva solo – come l’individuo nel suo ambito privato – cercare con la «discrezione» – frutto non di teoria e di sapienza libresca, ma di concreta esperienza – di intenderle e di regolarsi prudentemente senza illudersi di capovolgere il corso presente della storia.

Date tali impostazioni e date le stesse esperienze e qualità del Guicciardini si può capire come, nello svolgimento della sua vita e della sua attività di scrittore, il Guicciardini venisse sempre piú volgendosi alla narrazione della storia, ad una funzione di storico analitico, attento, lucidissimo, su di una linea che lo condurrà alla costruzione del suo monumentale capolavoro storico, la Storia d’Italia.

A quella vocazione preminente di storico viene sempre piú subordinandosi la pur forte attrazione per la politica esercitata personalmente, finché – come abbiamo detto parlando della sua vita – il Guicciardini si allontanò definitivamente e forzatamente da ogni attività pubblica e si ritirò nella sua villa di Arcetri interamente dedicandosi alla sua opera di storiografo.

Fino ad allora il fascino della quiete e della meditazione storica si era intrecciato con l’esercizio e il prestigio politico di cui egli ben constatava generalmente in uno dei suoi Ricordi la mal vincibile attrazione:

Non crediate a coloro che fanno professione di aver lasciato le faccende e le grandezze volontariamente e per amor della quiete, perché quasi sempre ne è stata cagione o leggerezza o necessità: però si vede per esperienza che quasi tutti, come se gli offerisce uno spiraglio di potere tornare alla vita di prima, lasciata la tanto lodata quiete, vi si gettano con quella furia che fa el fuoco alle cose bene unte e secche.

Ma – nella interna dialettica delle sue qualità e vocazioni – quella della meditazione e narrazione storica prevale e cresce, rivelandosi già entro scritti legati a precise occasioni ed esperienze politiche e vicende della propria attività di diplomatico, di militare, di governante (come il Diario del viaggio in Spagna, la Relazione di Spagna, la Relazione della difesa di Parma), o in scritti dedicati a proposte di forme di governo (come i due libri Del reggimento di Firenze, ultimati nel 1526, che, in forma di dialogo, prospettano i pericoli del regime tirannico e del regime popolare e propongono un tipo di governo misto, sul tipo di quello della repubblica veneta), e piú direttamente dispiegandosi prima nelle piú giovanili Storie fiorentine, e poi ancor piú profondamente e maturamente consolidandosi appunto nella Storia d’Italia.

Questa grande opera, stesa in forma annalistica, suddivide in venti vasti libri la trattazione del drammatico periodo della storia italiana dal 1492 al 1534 e cioè dalla morte di Lorenzo il Magnifico alla morte del papa mediceo Clemente VII, ripercorrendo – sulla base di una personale esperienza e di quella concezione amara e distaccata della vita e della storia che già abbiamo indicato – le complesse vicende della crisi italiana, dominata dalla rottura del felice e prospero equilibrio interno del secondo Quattrocento ad opera del malinteso egoismo e degli errori dei vari stati italiani incapaci di opporre un’azione politica sapiente e intelligente alla crescente pressione delle grandi potenze europee – soprattutto Francia e Spagna – sempre piú dominanti sulla scena italiana.

Cosí nella Storia d’Italia lo sguardo acutissimo e pacato del Guicciardini si allarga all’orizzonte della grande politica europea, ne indaga forze e condizioni, popoli e protagonisti, ne narra le vicende politiche e militari, ricostruendole nel loro svolgimento e nelle loro cause e implicazioni, cercando di cogliere e di individuare ogni particolare aspetto di un quadro cosí grandioso, ma minutamente analizzato e indagato fin nei fattori tecnici (specie la tecnica militare e i suoi strumenti).

Spiccano in questo quadro le narrazioni lucidissime, i ritratti psicologicamente approfonditi dei grandi personaggi protagonisti (ma essi stessi poi sottoposti a condizioni e casi complessi e spesso mal prevedibili), i celebri discorsi o «orazioni» ad essi attribuiti, condotti sí con un alto e solenne gusto retorico, ma mai privi di una lapidarietà e incisività che nasce dalla profonda passione di comprendere e spiegare atteggiamenti e moventi delle concrete e diverse persone attraverso i loro discorsi.

Nel suo insieme, come la Storia d’Italia è un capolavoro di narrazione storica sottratta ad ogni gusto apologetico ed esortatorio, ad ogni mistificazione edificante, ad ogni falsificazione tendenziosa, cosí essa è insieme un altissimo capolavoro di prosa e di stile, superiore – insieme a quella dell’altro capolavoro guicciardiniano dei Ricordi – a tutte le opere precedenti del Guicciardini caratterizzate spesso da una prosa piú nervosa e schiva di ogni abbellimento retorico, ma tanto meno armonica, robusta, chiara, coerente nella sua stessa sintassi ampia, cristallina, complessa alla generale maturazione del pensiero guicciardiniano fattosi sempre piú profondo e sicuro e all’ampliamento delle sue prospettive che dall’ambito fiorentino si allargano al vasto panorama italiano ed europeo.

Cosí all’acume intellettuale tanto accresciuto corrisponde un superiore rigore stilistico che si era maturato anche attraverso l’elaborazione e la revisione dei Ricordi, passati da una prima redazione ad una redazione finale tanto piú ricca di sfumature, di distinzioni, di precisazione intellettuale e stilistica dei pensieri in quel libro raccolti.

Mancano – concluderemo – anche ai capolavori del Guicciardini la forza eroico-profetica, l’appassionante tensione speculativa-poetica del Machiavelli, ma ciò va soprattutto spiegato come una diversità dei due grandi interpreti della visione rinascimentale della realtà effettuale. E se Machiavelli risulta complessivamente piú grande e decisivo nella storia del pensiero politico e nella storia della letteratura, ci si deve pur render conto della grande importanza del Guicciardini come espressione di un ulteriore affinamento dell’intelligenza rinascimentale, come fondatore di una nuova storiografia spregiudicata, analitica, non tendenziosa, e come prosatore di alta, severa, complessa armonia.

Con Guicciardini l’intelligenza rinascimentale ha fatto come un ulteriore passo avanti, anche se per la sua stessa eccezionale acutezza ha diminuito la forza attiva, la volontà di intervento pratico che essa aveva avuto nel Machiavelli.

3. Gli storici minori e il tacitismo

Di fronte alla grandezza dell’opera del Guicciardini nettamente minori appaiono le numerose opere storiche che pur possono considerarsi nel corso del Cinquecento, sia per i loro contributi particolari, sia per le direzioni diverse (come metodo storico e come prospettiva e presupposto politico e morale) che esse segnano nel vasto e complesso panorama di questo secolo tutt’altro che facilmente definibile in formule generali, generiche e prive di distinzioni specie nel suo svolgimento.

Cosí ancora legati ad ideali repubblicani e savonaroliani praticamente battuti dalle vicende storiche sono lo storico-politico fiorentino Donato Giannotti (1492-1573), esule e amico di Michelangelo, e l’altro fiorentino ed esule repubblicano Jacopo Nardi (1474-1563), autore delle Istorie della città di Firenze; mentre piú ancorati al tipo della storiografia umanistica, letteraria e oratoria, rimangono altri storici come il fiorentino Pierfrancesco Giambullari (1495-1555) con la sua Storia d’Europa dall’877 al 947, o come i due napoletani Angelo di Costanzo (m. 1591) e Camillo Porzio (m. 1580), autori rispettivamente di una Istoria del regno di Napoli e della Congiura dei baroni.

Laddove ci interessano per uno sviluppo singolare del pensiero del Machiavelli (osteggiato pubblicamente, ma ripreso proprio nelle forme piú adatte ai nuovi stati assolutistici e alla loro «ragion di stato», giustificante, per ragioni «superiori», ogni mezzo e accorgimento moralmente riprovevole) quegli storici che, inoltrati nel secondo Cinquecento e nel clima della Controriforma e del nuovo assolutismo statale, prendono ad imitare lo storico latino Tacito, sia nel suo stile (emulato da Bernardo Davanzati, proprio nella sua volgarizzazione dell’opera tacitiana), sia nella sua descrizione – negli Annali – delle arti tiranniche dell’imperatore Tiberio trasformato da questi storici in forme esemplari per i nuovi principi assoluti. Su questa linea del «tacitismo» si muovono storici cortigiani, come i fiorentini Benedetto Varchi, autore di una Storia (dal 1527 al 1538), e Bernardo Segni (1504-1558), autore delle Istorie fiorentine.

4. Il Vasari storico dell’arte

Alla generale ispirazione storiografica dell’epoca rinascimentale è da riconnettere anche la monumentale opera con cui l’aretino Giorgio Vasari (1511-1574), pittore e architetto in costante relazione con le maggiori personalità artistiche e letterarie del tempo, intese narrare la storia delle arti figurative attraverso le biografie dei maggiori rappresentanti di quelle. Si tratta delle Vite de’ piú eccellenti pittori scultori ed architettori (lentamente preparate con un’ingente raccolta di notizie e di osservazioni e poi stese fra il ’46 e il ’47, pubblicate nel ’50 e di nuovo, riscritte ed ampliate, nel ’68), opera non solo fondamentale per l’enorme massa di notizie e dati di fatto che essa offre, ma per una interpretazione della storia dell’arte italiana che associa – nel complesso clima estetico e culturale del Cinquecento – ideali del pieno Rinascimento (armonia, proporzione, imitazione della natura, esemplarità classicistica dell’epoca greco-romana) con nuovi ideali di grandiosità drammatica stimolati dalla grande opera figurativa di Michelangelo e volti a preparare aspetti della successiva civiltà estetica barocca.

L’opera infatti culmina nella narrazione della vita e nella descrizione della «maniera» (o stile) e delle opere singole di Michelangelo come termine attuale di un lungo processo dell’arte che, rinata dopo il Medioevo, considerato come epoca barbara e priva della lezione dei classici, si matura e perfeziona attraverso le particolari conquiste tecniche dei singoli artisti dal Trecento al Cinquecento, specie nella crescente sicurezza del «disegno», cui il Vasari prevalentemente guarda nella direzione dell’arte toscana, anche se nella seconda edizione dell’opera egli non manca di valutare positivamente il piú forte gusto del «colore» nella grande pittura di Tiziano.

Ma le Vite non sono solo documento importante delle prospettive storiografiche e critiche cinquecentesche applicate all’arte (e magari anche dei loro limiti rispetto a piú moderne concezioni dell’arte, troppo legata nel Vasari all’idea dell’imitazione della natura); esse costituiscono insieme un notevolissimo documento letterario, specie là dove lo scrittore piú liberamente si abbandona al gusto del narrare le vicende biografiche degli artisti, la loro vita faticosa e laboriosa, a suo modo «eroica» e «virtuosa» nella lotta con le difficoltà e l’ostilità delle cose e degli uomini, e al gusto, spesso molto fresco ed efficace, del descrivere e del ricreare immaginosamente quadri o sculture rendendone le vive impressioni e le suggestioni di novità di invenzione e di costruzione del soggetto trattato, come esemplarmente avviene, ad esempio, nella bella pagina dedicata al Giudizio universale di Michelangelo nella sua «terribilità e grandezza», nella mossa moltitudine di figure dominata dalla severa ed energica figura del Cristo giudice, «il quale sedendo, con faccia orribile e fiera ai dannati si volge, maledicendogli, non senza gran timore della Nostra donna, che, ristrettasi nel manto, ode e vede tanta rovina».